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Con disegni di Salvatore Ciano. In copertina: Controluce di S. Ciano |
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Critica Emilio Argiroffi, Preamboletto alla lettura dei sonetti |
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di Domenico Antonio Cusato
I sonetti di Rocco Futia non sono certo di facile lettura. E non soltanto per il linguaggio difficile e ricercato o per il desueto ordine sintattico del periodo utilizzato nelle sue composizioni, ma soprattutto per l’impossibilità di individuare immediatamente il retroterra culturale da cui provengono i suoi temi. Le letture che ci sono dietro questi sonetti, infatti, sono molteplici e variegate: vi sono richiami a miti classici e moderni (qualche volta, come nel caso di Cenerentola, carnevalizzati con fine ironia), si trovano varie simbologie che, pur provenendo da temi cari ad altri autori già consacrati (come i labirinti di Jorge Luis Borges o gli specchi esperpentici di Ramón del Valle-Inclán) sono ripresi dal nostro autore ed elaborati in modo particolarmente originale. Dietro i sonetti, dunque, non vi è solo una cultura specifica, relativa al campo di lavoro a cui Futia si dedica (come molti sapranno, essendo direttore didattico, si occupa più specificatamente di pedagogia), ma c’è tutta una cultura relativa a vari campi (letterario, linguistico, sociologico, psicologico, cabalistico, esoterico, filosofico...), alla quale l’intellettuale non ha voluto rinunciare, per la profonda curiosità che da sempre lo anima. Dunque, con tutti i riferimenti che si trovano disseminati nelle sue composizioni, non si può non sottolineare che la poesia di Futia è anche una poesia colta. Dico “anche”, perché se fosse soltanto poesia colta mancherebbe di tutte quelle suggestive e fresche immagini che, invece, il poeta riesce a trasmettere, e con le quali coinvolge pure il lettore che si ferma al livello più superficiale di lettura o anche alla sola musicalità (che, invero, ha una parte importantissima, e non scaturisce solo dalla rima, ma anche da quel particolare ritmo interno creato dalla cadenza degli accenti tonici). A questo proposito, collegato con il motivo già accennato della sintassi inusuale, si vedano i seguenti versi:
Ormai l’opaca morte delle cose piega i legami col tempo sognato, le poche dissipando mode annose, l’idolo vero non favoleggiato (Commedia, p. 19).
Come si può notare, il terzo verso (“le poche dissipando mode annose”) nella rettificazione dell’iperbato suonerebbe: “dissipando le poche mode annose”, e renderebbe immediatamente comprensibile il senso dell’orazione. Tuttavia, Futia non ha scritto così per il solo gusto di utilizzare una particolare figura retorica o per dare una patina di “antico” al suo testo. È chiaro che, nell’ipotetica ricostruzione, la cadenza interna non sarebbe stata la stessa: mentre in “le poche dissipando mode annose”, abbiamo l’accento sulle sillabe pari (II, IV, VI, VIII, X), nell’altro caso (“dissipando le poche mode annose”), già il primo accento cadrebbe sulla III, poi sulla VI ecc. a meno di non leggere: “dissì-pandò le poche mode annose”. Certo, l’endecasillabo sarebbe perfetto, ma non ugualmente perfetta risulterebbe la prosodia. Futia, invece, estremamente meticoloso come sempre, ha cercato di avvicinarsi il più possibile alla perfezione assoluta. Ciò non vuol dire che l’abbia sempre raggiunta; ma certamente nella sua poesia ogni verso è sofferto e non vi è niente di casuale. Non si debbono dunque prendere come un vezzo le elisioni e i troncamenti (cfr., p. es., pp. 22, 30, 34, 52, 74...); né tutte quelle contrazioni e parole desuete (pei p. 12, verno p. 34, brunire p. 39, impigra p. 42); né tantomeno ancora le dieresi, che allungano il verso di una sillaba (abbazïale p. 50, irrequïeta p., 54): tutto ciò, infatti, risponde all’esigenza metrica e prosodica del poeta. Un altro aspetto di grande interesse delle composizioni di Futia si riscontra nel lessico. L’autore, infatti, partendo da un sema, crea con estrema naturalezza dei neologismi di indubbio valore poetico. Anche questi neologismi, in fondo, rispondono a quelle esigenze del suo poetare a cui si è accennato. Si noti, per esempio, la seguente strofa:
Cercano l’uomo maschere corrose nei mille piani ov’egli è esiliato, l’armoniche ritmando più giocose, desublimando l’Altro ereticato (Commedia, p. 19).
“Desublimando” (vale a dire frustrando la sublimazione, sottraendo la sublimazione) è utile, è vero, per sintetizzare e quindi poter rientrare nell’endecasillabo, ma serve anche e soprattutto per evitare di prosaicizzare la composizione. E così, tutti i neologismi (Simulacrato p. 22, cornucopiando, mistagogo p. 23, crepuscolando [termine che fa proprio, visto che si ripete due volte] p. 26 e p.82, comicale p. 28, nubente p. 32, angelicando, epocando p. 36, effimerando p. 43, sagrando p. 50, rispazia p. 52, politeizza, epoca [III persona pres. di epocare] p. 64, epocar p. 67, mosaicando p. 81): tutti essi, da una parte, rivelano la costante tendenza del poeta a sintetizzare, dall’altra, però, manifestano anche il tormentoso bisogno di esprimere una particolare sfumatura, presente nella sua mente, diversa da quella che scaturirebbe da una qualsiasi perifrasi. Vorrei ora aggiungere che la tentazione di approfondire maggiormente l’analisi dei sonetti è prepotente; tuttavia, per non abusare dello spazio concessomi, rimando ad altra occasione lo sviluppo di alcuni spunti che la lettura di questo libro mi ha suggerito. Ma per non concludere lasciando l’idea che è solo tecnica ciò che ritroviamo nelle composizioni di Futia, vorrei sottolineare che questo particolare virtuosismo di cui si è parlato non è fine a se stesso: l’autore se ne serve per presentare la sua Weltanschauung: la vita è segnata dalla dicotomia “essere/apparire”. E la maschera, a cui fa riferimento il titolo, è l’immagine concreta di questa opposizione. Vi è, inoltre, una chiara presa di posizione di Futia contro un certo tipo di modernità che ha fatto perdere la spontaneità dei rapporti quotidiani, poiché troppe sono le enigmatiche e false maschere dietro cui l’uomo si nasconde. Una di queste è quella del poeta, inteso come colui che sa esclusivamente costruire il verso (e, forse, aggiungerei io, qualche volta nemmeno quello): poeta, secondo Futia, dovrebbe considerarsi piuttosto colui che sa suggerire, che riesce a caricare di molteplici sensi e sensazioni i suoi componimenti, lasciando aperta l’opera all’interpretazione. Starà, poi, al lettore (ma non certo al lettore empirico, bensì a quello ideale) cogliere gli ammiccamenti dell’artista e integrare in base alla propria esperienza, al proprio grado di conoscenza e di sensibilità, le immagini e il messaggio polisensi. E Futia ci tiene a sottolineare, e in questo mi trova perfettamente d’accordo, che la sua poesia risponde pienamente a tutto ciò:
Chi filastrocche solo ormai poeta entrar non può nel campo del dio Marte ove coi motti farsi grande atleta: dal mondo polisenso qui si parte (Poeta, p. 38).
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