La Comparsa
La Comparsa sopravanza la scena
mentre il cuore zolfigno
rimanda al poeta smemorato
e alla cenere
d’una cattedrale cresciuta nel silenzio.
La Comparsa sorregge l’attore di schiuma
mentre la nebula di rosa
avvolge la clessidra dell’idolatra
e il volto d’una corsara un po’ bugiarda
che invoca nuovamente la notte dei treni
per chiudere il tempo
e lo scrigno che separa dall’abisso.
La Comparsa supera la parola del poeta
e l’orgoglio della maschera:
come una brezza sonnolenta
si leva dalla tenebra rossastra,
quasi all’alba,
per un incontro nella sala del tè
dove la luce alza spire di tabacco
e le labbra
assaporano le labbra dell’incenso e della rosa.
La Comparsa è un’ombra senza senso,
con bocca di bestemmia
e mani di mollica.
E si vede regina dentro il cono azzurrastro
che obliqua la scena.
È una strana credenza gettata all’incanto,
con piedi malfermi
e pancia come otre gonfio di lezzi.
La Comparsa eccede il mistero della scena
e la grandezza dell’inganno,
come il volo d’un fantasma
sospende nel nulla il sogno d’un cuore.
La Comparsa non ha un’anima sua:
figlia d’uno strambotto
dietro le quinte
s’atteggia a parlante di rango
e si sente essenziale,
e percorre più volte il centro d’una farsa
che prende il tempo al contrario
e la luce a tranello,
in un balocco della mente
che fa ridere il volgo.
La comparsa nella sala del tè,
quasi al tramonto d’un giorno di novembre,
si consuma come una serenata di ieri
che soverchia più voci smagate:
e siamo noi a baciarci le labbra
cantando versetti d’amore,
siamo noi a cullarci appagati
e a tenerci il mistero d’una fuga segreta
ai confini dell’otto di dicembre,
siamo noi a crederci angeli
che vivono la notte duplicata degli amanti,
ribelli
perché fuggiti dalla dimora di corallo
perché i numeri strani della sorte coincidono appieno
e segnano il tempo
d’una storia più vera del sogno.
«La Comparsa sei tu,» mi stai dicendo,
«quando torni nel sogno d’un altro.
E l’altro sono io,
la figlia d’un inganno senza di te.»